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Shoegaze da Catania, loro sono i Clustersun!

Abbiamo intervistato i Clustersun in vista della pubblicazione del loro secondo disco intitolato Surfacing to Breathe. Buona lettura!

Partiamo subito con la classica domanda che si fa sempre… Perché Clustersun?

Nasce tutto dal nostro atteggiamento “cazzone” in sala prove… Abbiamo sempre la fissazione di registrare tutto quello che facciamo quando proviamo e per dare un nome a queste jam  siamo soliti storpiare nomi di brani celebri. Un giorno è uscito fuori “Cluster Sun”, così ribattezzato per le reminiscenze con un brano strumentale dei Pink Floyd.

Quando si è dovuto pensare al nome della band tutti ci siamo ritrovati d’accordo nello sceglierlo come moniker, trasformato in parola unica: Clustersun ci è sembrato un nome abbastanza figo e ben rappresentativo dello spirito e dell’estetica psichedelica del progetto. Si parla dei primi mesi del 2013.

Come vi siete conosciuti?

Io (Mario) e Piergiorgio eravamo compagni di liceo e suonavamo anche a quei tempi. Con Marco ci siamo conosciuti all’università ed è scattata subito una sintonia umana e musicale incredibile. Tutti e tre, insieme a un altro caro amico alla batteria, Seby Gazzo, avevamo un altro progetto che era a metà tra Indie Rock alla Franz Ferdinand e qualche rimembranza di shoegaze. Seby poi ha messo la testa a posto, mentre noi tre non siamo riusciti a liberarci del complesso di Peter Pan.

A quel punto c’è stato l’incontro con Andrea, con il quale si è creata un’alchimia perfetta fin dal primo istante in cui si è seduto dietro le pelli. Ovviamente il progetto era nato proprio per divertirci in stile party band. Col tempo in sala prove è uscito il primo sound dei Clustersun.

Avete cominciato a suonare seriamente in quel periodo in cui magari molti lasciano il sogno della musica per dedicarsi ad altro, da dove esce fuori tutta questa grinta di mettersi ancora in gioco?

Per noi è l’opposto, l’obiettivo ultimo non è arrivare necessariamente da qualche parte, ma divertirci insieme. I bei riscontri ricevuti hanno trasformato l’attitudine da “partita a calcetto del martedì” in qualcosa di più serio. Anche se per noi è sempre una serietà relativa. La molla è stata proprio il non avere la smania di imporci e diventare chissà chi. Però ci piace che le cose escano nel modo in cui vogliamo. Una serietà mascherata insomma.

Quando nasce un progetto si pensa un attimo al genere che tira di più anche perché molti pensano che il fine ultimo sia suonare il più possibile, quindi, perché avete scelto un genere ostico come lo shoegaze?

Perché siamo cresciuti così, a pane e shoegaze. Ognuno di noi, pur con influenze musicali in parte diverse, si ritrova in questo genere, che rappresenta il terreno più fertile per i nostri stimoli. Troviamo grande libertà d’espressione dovuta dalla vastità del genere stesso, nel quale convivono band con percorsi espressivi davvero molto variegati.

Un uccellino mi ha detto che avete fatto un tour negli USA, come ci siete arrivati sin lì?

Prima ancora dell’uscita dell’album siamo stati notati da Dave Allison della label americana Custom Made Music, dopo un ascolto su soundcloud. All’inizio non ci credevamo nemmeno noi e solo dopo uno scambio di mail siamo giunti alla conclusione che non si trattava di una fake clamoroso! L’etichetta USA ci ha inserito in varie compilation e nelle programmazioni di diverse radio universitarie ed ha poi organizzato. Grazie anche a questo bel botto iniziale abbiamo cominciato a mandare con fiducia in giro il nostro singolo autoprodotto, fino ad arrivare alle orecchie di Paolo Messere di Seahorse Recordings: lui ha creduto subito in noi e ci ha spedito subito in studio di registrazione per pubblicare il nostro primo album “Out Of Your Ego”. La collaborazione con la Custom Made Music nel frattempo è proseguita anche con la promozione a seguito dell’uscita dell’album, fino a sfociare nell’organizzazione del nostro tour americano.

L’esperienza USA com’è stata? Avete vissuto i classici stereotipi o qualcosa vi ha colpito particolarmente?

E’ proprio come te l’immagini, se non meglio. Un sogno che fai da bambino e improvvisamente si realizza: in tour negli Stati Uniti, girando per le highways in furgone! Incontri tante persone che vanno ai concerti con una voglia di conoscere estrema. Alcuni non si aspettavano che una band italiana potesse fare un genere come il nostro. Si può percepire grande curiosità di scoprire band che potrebbero esplodere da un momento all’altro. E’ stato proprio gratificante. Abbiamo fatto tutte le esperienze possibili ed abbiamo suonato in posti storici ed anche in club microscopici.

Avete notato delle differenze sostanziali tra l’Italia e gli USA?

Si, la grande attenzione del pubblico nei confronti di band e musica nuova. Gli orari vengono sempre rispettati e di certo c’è una gran professionalità ed un supremo rispetto per la musica live. I tempi sul palco sono serrati e non si scherza assolutamente. In alcuni posti i fonici sono pazzeschi e riescono a far uscire il suono che desideri in brevissimo tempo; questo ci ha fatto molto piacere perché anche noi siamo molto maniacali su questo versante. Lì inoltre c’è la cultura del volume, non esiste il problema del disturbo o delle lamentele del vicinato. In USA si suona con la massima attenzione e diligenza.

Domanda stupida: qualcuno vi ha mai chiesto di partecipare ad un talent?

Si, tutti ce lo chiedono, soprattutto chi non sa quali dinamiche ci siano dentro un talent. E’ la domanda più gettonata dopo “Perché non cantate in Italiano?”, e le risposte sono semplici: vogliamo esser liberi di esprimerci ed arrivare a più persone possibile, ciò che nè i talent nè la lingua italiana ci permetterebbe di fare. Ci fa un sacco di piacere che con la lingua inglese la nostra musica possa arrivare ovunque e generare feedback da ogni parte del mondo.

Ed invece per quanto riguarda il crowdfunding?

Purtroppo qui in Italia c’è una resistenza al concetto di chiedere aiuto per realizzare un disco o altro, però è una mentalità che va superata: i tempi sono cambiati ed è sempre più difficile trovare qualcuno che possa sostenere o produrre totalmente il tuo progetto. È anche un modo per abbattere lo steccato tra artisti e pubblico. Il contesto musicale è completamente cambiato e non comprendere il passaggio rischia di risolversi in un autogol micidiale.

Ultima domanda: se vi arrivasse mai una proposta dall’estero per fare quello che fate in maniera professionale ovvero vivendo di musica, lascereste tutto quello che avete qui per andare via?


Se ci fosse la possibilità concreta di vivere di musica noi tutti accetteremmo con entusiasmo di mollare tutto e seguire la nostra passione. È il sogno più grande a cui si può ambire, un’utopia più probabilmente. Noi stiamo comunque bene già adesso, ma tutto quello che potrà venire in più da questa avventura sarà per noi un dono.

Guarda qui il nuovo singolo Raw Nerve
Link Bandcamp pre order Surfacing to Breathe

CLUSTERSUN official press photo 1
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